La trasfigurazione del banale di Arthur Danto

In uno dei post precedenti spiegavo in breve la posizione di Danto a proposito del dibattito analitico sulla definizione di arte. E citavo il testo più noto del filosofo e critico d’arte americano: La trasfigurazione del banale.

Il libro è del 1981 ed ha avuto una notevole diffusione ed influenza. E’ disponibile in traduzione italiana edito da Laterza [Danto, Arthur C., The Transfiguration of the Commonplace. A Philosophy of Art, Harward University Press, Cambridge (Mass.)-London, 1981; trad. it. di Stefano Velotti, La trasfigurazione del banale, Editori Laterza, Roma-Bari 2008].

L’origine di questo titolo è molto particolare; è Danto stesso, nella prefazione del testo, a raccontarci di come gli venne in mente: gli venne suggerito da un romanzo di Muriel Spark, Gli anni fulgenti di Miss Brodie, in cui uno dei personaggi, Suor Elena della Trasfigurazione, è l’autrice di un libro dal titolo: La trasfigurazione del banale.

Dopo aver deciso di usare questo titolo per il suo libro, Danto lo comunicò a Muriel Spark, chiedendole quale sarebbe stato il contenuto del libro di Suor Elena. Muriel Spark rispose che sarebbe stato un libro d’arte.

Ma cosa intende Danto per “trasfìgurazione del banale”?

Con questa locuzione Danto indica il cambiamento di status, la trasfigurazione appunto, che alcuni oggetti comuni possono avere per mano degli artisti. Il riferimento più frequente nel libro è quello alle Brillo Boxes di Warhol. Un altro esempio molto noto che si può fare a riguardo è quello di Fountain di Marcel Duchamp. In entrambi questi casi degli oggetti di uso comune (le scatole di Brillo e l’orinatoio) vengono considerati opere d’arte. Si trasfigurano, direbbe Danto.

Da queste considerazioni Danto inizia un percorso di pensiero sicuramente originale ed articolato, ricco di spunti interessanti.

La trasfigurazione “originale”, a cui Danto lega anche la sua nella prefazione, è quella di Gesù descritta nei vangeli sinottici. Così ne parla Danto:

Pietro, Giovanni e Giacomo videro davanti a loro Gesù trasfigurato: «Il suo viso splendeva come il sole, e la sua veste era candida come la neve». E’ possibile che a splendere fosse l’opera d’arte, ma l’incandescenza non poteva costituire il tipo di differenza specifica richiesto da una definizione dell’arte, se non come metafora
[A.C. Danto, La trasfigurazione del banale, cit., p. XXV]

In uno dei testi a cui farà riferimento Danto, La nascita della tragedia di Nietzsche, che serve al filosofo americano per isolare due differenti significati di rappresentazione (rappresentazione come ripresentazione e rappresentazione come stare per), è presente un’altra trasfigurazione, quella di Raffaello, ecco cosa scrive Nietzsche a riguardo:

«Raffaello […] ci ha rappresentato in un dipinto simbolico quel depotenziarsi dell’illusione nell’illusione, il processo originario dell’artista ingenuo e insieme della cultura apollinea. Nella sua Trasfigurazione la metà inferiore col ragazzo ossesso, gli uomini in preda alla disperazione che lo sostengono, gli smarriti e angosciati discepoli, ci mostra il rispecchiarsi dell’eterno dolore originario, dell’unico fondamento del mondo: l’ «illusione» è qui un riflesso dell’eterno contrasto, del padre delle cose. Da questa illusione si leva poi, come un vapore d’ambrosia, un nuovo mondo illusorio, simile a una visione, di cui quelli dominati dalla prima illusione non vedono niente – un luminoso fluttuare in purissima delizia e in un’intuizione priva di dolore, raggiante da occhi lontani. Qui abbiamo davanti ai nostri occhi, per un altissimo simbolismo artistico, quel mondo di bellezza apollinea e il suo sfondo, la terribile saggezza di Sileno, e comprendiamo, per intuizione, la loro reciproca necessità”.
[Nietzsche, Friedrich, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 2009, p. 36]

Trasfigurazione di Raffaello, 1518-20, Pinacoteca Vaticana.
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