George Dickie: la definizione istituzionale dell’arte

In un articolo precedente dedicato alla filosofia dell’arte di Arthur Danto sottolineavo quanto una nozione proposta dal filosofo americano fosse divenuta importante ai fini del dibattito analitico sulla definizione di arte: il concetto di mondo dell’arte.

Al contempo citavo anche il passo de La trasfigurazione del banale in cui Danto prende le distanze dalle teorie che hanno tentato di definire l’arte a partire da questa nozione, in particolare dalla definizione divenuta nota come definizione istituzionale dell’arte. In questo articolo analizzo il tentativo di definizione dell’arte in senso istituzionale poggiando su alcuni testi di George Dickie, probabilmente il filosofo più importante tra quelli che hanno tentato questo approccio.

Dickie considererà il “mondo dell’arte” una vera e propria istituzione sociale e grazie ad essa costruirà una definizione essenzialista dell’arte, ossia una definizione che tenta di individuare condizioni necessarie e sufficienti.

Per Dickie il mondo dell’arte è composto da una serie di addetti ai lavori (ad esempio critici, storici dell’arte, artisti…) e di istituzioni apposite che hanno il compito di conferire ad un opera lo “status” di opera d’arte. Ecco la definizione di Dickie:

Un’opera d’arte in senso classificatorio è 1) un artefatto, 2) un insieme delle proprietà del quale ha fatto sì che gli venisse conferito lo status di candidato all’apprezzamento da una o più persone che agiscono per conto di una determinata istituzione sociale (il mondo dell’arte).
[Dickie, George, Art and the Aestethic: An Istitutional Analysis, Cornell University Press, Ithaca (N. Y.), 1974, pp. 33-34, trad. it. in P. D’Angelo, Introduzione all’estetica analitica, Editori Laterza, Roma-Bari 2008, p.14.]

Il primo punto individuato da Dickie, l’esser l’opera un artefatto, rischia di tagliare fuori dall’arte un cospicuo numero di opere tradizionalmente intese come tali. Dickie intende artefatto in un modo un po’ distante dall’uso comune del termine nonostante in The New Institutional Theory of Art [G. Dickie, La nuova teoria istituzionale dell’arte, in S. Chiodo, a cura di, Che cosa è arte, UTET, Torino 2007] sottolinei che il significato di «artefatto» sia quello ordinario da vocabolario: «un oggetto fatto dall’uomo, con un’attenzione rivolta, in particolare all’uso successivo» [Ivi, p. 86].

Le poesie, il teatro, e più in generale molti eventi dal vivo, come i concerti, si potrebbe fare difficoltà a capire in che senso siano “artefatti”. Dickie chiarisce quindi che con artefatto intende un qualsiasi “oggetto”, anche non fisico, fatto dall’uomo. In questo modo include nella sua definizione tutte le performance.

Alcune opere del Novecento, come i readymades, non sono però “fatte” dall’artista. Per fare in modo che i readymades, così come molte altre opere, rientrino nella categoria degli artefatti, Dickie deve fare una ulteriore specifica:

L’orinatoio (l’oggetto semplice) è stato usato come un medium artistico per produrre l’Orinatoio (l’oggetto complesso) che è un’artefatto all’interno del mondo dell’arte – l’artefatto di Duchamp […], l’orinatoio è stato di fatto usato, come medium artistico, nello stesso modo nel quale i pigmenti, il marmo e così via vengono usati per produrre opere d’arte più convenzionali.
[Ivi, pp. 89-90.]

Nello stesso articolo Dickie si deve sforzare anche di “salvare” il termine artefatto dal rischio opposto, quello cioè di essere troppo inclusivo. Nel mondo dell’arte vi sono infatti moltissimi artefatti oltre alle opere d’arte, come le locandine e i cartelloni pubblicitari. Egli affronta la questione dividendo gli artefatti primari da quelli secondari:

Per prevenire un’obiezione alla definizione, permettetemi di riconoscere che esistono artefatti creati per la presentazione ai pubblici del mondo dell’arte che non sono opere d’arte: ad esempio i cartelloni teatrali. Questi oggetti sono, comunque parassitici o secondari rispetto alle opere d’arte. In questo contesto le opere d’arte sono artefatti di genere primario e i cartelloni teatrali, ad esempio, che dipendono dalle opere d’arte, sono artefatti di genere secondario. La parola «artefatto» presente nella definizione dovrebbe essere intesa in riferimento ad artefatti di genere primario
[Ivi, p. 96]

Quindi artefatto diviene un termine che deve contenere anche opere che normalmente non sono considerate artefatti, come i readymades, e però deve escludere cose che, sempre per il senso comune, sono artefatti, come i cartelloni teatrali. In sostanza Dickie rimodella questo termine per fare in modo che esso divenga, nella sua estensione, identico ad opera d’arte.

L’uso del termine artefatto, seppur da un certo punto di vista è molto vicino al senso comune, richiede in realtà una serie di specifiche che fanno pensare che alla fine forse convenga abbandonarlo.

Paolo D’Angelo ricostruisce utilmente la questione:

Dickie sembra incline a pensare che ogni conferimento di status artistico implichi di per se stesso trasformazione dell’oggetto in questione in artefatto; successivamente, ammette la possibilità che il conferimento sia solo presunto, e richiede che esso comporti una qualche trasformazione (in senso lato: può essere anche solo l’esibizione) dell’oggetto così come esso inizialmente è dato. Molti autori si sono pronunciati sulla «condizione di artefattualità», sia ribadendo la necessità di una trasformazione effettiva e intenzionale […], sia argomentando che un oggetto può diventare un artefatto anche semplicemente assumendo nuove proprietà (per esempio per il fatto di essere isolato, o collocato in un luogo particolare […]); altri […] hanno sostanzialmente negato che l’essere un artefatto sia una nozione necessaria per la definizione dell’opera d’arte (per un riassunto di tutta la discussione cfr. Warburton, 2003)
[P. D’Angelo, Introduzione all’estetica analitica, cit., p. 15].

E’ comunque la seconda condizione ad essere davvero problematica. Dickie pensa il “conferimento di status” analogicamente ad altri campi del vivere sociale in cui è all’opera una istituzione. Ad esempio, un ufficiale di stato può conferire lo status di “coniugato” e un prete quello di “battezzato”. Il mondo dell’arte è però una istituzione in un senso molto diverso rispetto allo Stato o alla Chiesa. Dickie pur rendendosi conto di questa differenza, tende tuttavia a pensare il mondo dell’arte come una istituzione paragonabile allo Stato, alla Chiesa o, ad esempio, all’università, seppur con vincoli più lenti.

Inoltre, per Dickie «qualunque persona che considera se stessa come membro del mondo dell’arte ne è per ciò stesso membro» [Dickie, George, Art and the Aestethic: An Istitutional Analysis, cit., p. 36, trad. it. in P. D’Angelo, Introduzione all’estetica analitica, cit., p.16], affermazione che in gran parte contraddice quella secondo cui il mondo dell’arte sia una istituzione, essendo una istituzione necessariamente governata da regole sulle quali si basano l’accesso e l’ammissione ad essa.

Sempre riguardo il secondo requisito, altra espressione per molti versi non chiara è quella di “candidato all’apprezzamento” con la quale Dickie vuole sottolineare la possibilità che lo status venga conferito ad opere d’arte “brutte”, che però non ottengono successivamente l’apprezzamento. Questo criterio sembra però reintrodurre dei criteri estetici che Dickie voleva escludere dalla definizione dell’arte, a meno che esso non si basi su un giudizio qualsiasi, anche casuale o di convenienza.

Successivamente Dickie rivedrà molte di queste posizioni tenendo però fermo il punto centrale, quello dell’istituzionalità della definizione. Nel già citato The New Institutional Theory of Art, egli accoglie alcune critiche di Beardsley, togliendo dalla definizione sia la nozione di “statuto dato” che quella di “agire nell’interesse di” e chiarirà il senso della nozione di mondo dell’arte.

Ciò che nel mondo dell’arte è primario, scriverà Dickie, è la “consapevolezza” di essere all’interno di una istituzione in cui sono codificati determinati “ruoli”. In particolare, i ruoli fondamentali sono due, quello dell’artista e quello del “pubblico”. Esistono poi una serie di ruoli secondari che possono variare in relazione alle modificabili convenzioni interne ad ogni singola arte:

Quel che è primario è la consapevolezza, condivisa da tutti i coinvolti, di essere parte di un’attività istituita o di una pratica istituita, all’interno delle quali esiste una varietà di ruoli: il ruolo dell’artista, il ruolo del pubblico, il ruolo dei critici, il ruolo del regista, il ruolo del curatore e così via. Il nostro mondo dell’arte è dato dalla totalità di questi ruoli, nella quale sono centrali i ruoli dell’artista e del pubblico.
[G. Dickie, La nuova teoria istituzionale dell’arte, cit., p. 95]

I due ruoli cardine, l’artista e il pubblico, sono indispensabili, al di là di ogni convenzione e di ogni variazione artistica possibile, tanto che è su di essi che si fonda una nuova definizione di arte in termini di condizioni necessarie e sufficienti: «un’opera d’arte è un artefatto di un certo genere creato per essere presentato a un pubblico del mondo dell’arte» (Ivi, p. 96).

Questa breve definizione contiene i due punti fondamentali delle più elaborate definizioni che Dickie fornirà in seguito: artista e pubblico.

L’evidente circolarità che si veniva a creare tra arte definita sulla base del mondo dell’arte, e mondo dell’arte costituito da un apprezzamento che sottintende il fatto di sapere già cosa è arte, viene ammessa e difesa da Dickie in quanto a suo dire essa non è una circolarità viziosa, ma ampia ed informativa. I termini su cui ruota la definizione sopra citata rimandano l’uno all’altro reggendosi vicendevolmente. Sono cioè “nozioni inflesse”, che si supportano l’una con l’altra. Questa circolarità, sempre secondo Dickie, non è un minus della definizione, anzi, rispecchia la circolarità che è nella natura stessa dell’arte che è caratterizzata da una intricata struttura che le definizioni non circolari non riescono a cogliere:

La natura inflessa dell’arte è riflessa nel modo attraverso il quale la apprendiamo. L’apprendimento è talvolta inteso nel senso di come imparare a essere un artista – imparando come dipingere quadri che possono essere esposti, ad esempio. Ed è talvolta inteso nel senso di come imparare a essere un membro di un pubblico del mondo dell’arte – imparando come osservare i dipinti che sono presentati come i prodotti intenzionali degli artisti.
[Ivi, pp. 96-97]

Questa è la definizione riformulata in The Art Circle che include esplicitamente questa circolarità:

1) un artista è una persona che partecipa consapevolmente alla produzione di un’opera d’arte;
2) un’opera d’arte è un artefatto di un tipo creato per essere presentato a un pubblico di un mondo dell’arte;
3) un pubblico è un insieme di persone preparate in qualche misura a comprendere l’oggetto che è loro presentato;
4) il mondo dell’arte è insieme di tutti i sistemi dei mondi dell’arte;
5) in quanto sistema, il mondo dell’arte è una cornice per una presentazione di un’opera d’arte da parte di un’artista al pubblico di un mondo dell’arte.
[Dickie, George, The Art Circle: A Theory of Art, Haven, New York, 1984, trad. it. in P. D’Angelo, Introduzione all’estetica analitica, cit., p. 17]

Al di là delle molte critiche possibili anche a questa definizione essa mette in luce alcune caratteristiche importanti ai fini del nostro resoconto.

Essa sottolinea, ad esempio un aspetto sociale dell’arte che sarà ripreso nei dibattiti successivi. Inoltre questa definizione è un buon esempio di definizione “classificatoria”. In un articolo successivo vedremo la differenza tra definizioni classifficatorie, come questa di Dickie, definizioni procedurali e funzionali.

Escher-Limite-del-cerchio-IV-Angeli-e-diavoli
Escher, Limite del cerchio IV (Angeli e diavoli), 1960
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