Le regole di accettazione e di integrazione

Questo articolo segue idealmente il discorso fatto nel precedente a proposito della “regolamentazione” interna dell’immaginazione proposta dal filosofo analitico Kendall Walton nel suo libro più celebre, Mimesi come far finta. L’argomentazione del filosofo è in questo caso ancor più sottile e “tecnica” che nel resto del libro.
A dire di Walton i sogni e i sogni spontanei ad occhi aperti sono disciplinati da regole, in modo simile a ciò che accade per i giochi di far finta.

Il processo argomentativo del filosofo è sicuramente “faticoso” in questa parte del libro. Walton si sforza infatti di trovare delle regole che influenzano queste due attività immaginative al fine di preservare la compattezza della sua teoria.
A suo dire queste due esperienze sono in effetti caratterizzate una regola comune, la regola di accettazione:

Possiamo preservare una teoria unificata interpretandoli come disciplinati da una regola di massima – chiamiamola regola di accettazione – in base alla quale qualsiasi cosa sia di fatto immaginata, come parte di un sogno o di un sogno ad occhi aperti, deve essere immaginata. Chi immagina, semplicemente accetta come idonee e appropriate le immaginazioni in cui si scopre impegnato. (La regola di accettazione, come quelle che sono alla base dei principi di generazione, è condizionale.)
[Walton, Kendall L., Mimesis as Make-Believe, Harward University Press 1990; trad. it. di Marco Nani, Mimesi come far finta, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2011, p. 67]

Il filo su cui scorre l’argomentazione è molto sottile. La complessa rete concettuale elaborata da Walton in questo punto diventa quasi un labirinto mentale.

L’autore si accorge che questa regola potrebbe sembrare inutile. Non è così, – continua il filosofo – se ad esempio stessimo sognando ad occhi aperti di “essere dei pellerossa” la regola prescriverebbe che dovremmo continuare ad esserlo. E se ciò non accade? In tal caso daremmo inizio – sostiene sempre Walton – ad una nuova fantasticheria o comunque staremmo cambiando le regole di quella in corso.

Se le regole alla base dei principi di generazione sono regole in un senso molto debole, questa regola è talmente labile che nutro dei dubbi sull’utilità di chiamarla “regola”. Essa viene trasgredita di continuo ed anzi ha, per molti versi, senso solo se viene trasgredita.
Difendendo l’utilità della regola di accettazione Walton scrive:

Questa manovra atta a preservare l’unitarietà del nostro resoconto della finzionalità non è ad hoc come potrebbe sembrare. Accetto che tutto quello che viene immaginato come parte di una fantasticheria spontanea sia fittizio in quella fantasticheria. Ma non è chiaro se valga l’inverso. Il mio suggerimento è che proposizioni non immaginate possano essere fittizie in una fantasticheria spontanea e non è implausibile che a renderle tali sia una prescrizione di immaginarle
[Ivi, p. 68]

Il tentativo è quindi quello di tenere diviso immaginato e fittizio, e di caratterizzare il fittizio come prescrizione a immaginare anche nei sogni e nelle fantasticherie. Anche ciò che non viene immaginato può essere fittizio, e fittizio significa che vi è una prescrizione ad immaginarlo. Vale a dire che nei sogni e nei sogni ad occhi aperti vi sono prescrizioni ad immaginare che possono non venire soddisfatte, ossia che di fatto non vengono immaginate.

L’esempio proposto nel libro è quello di Doris che racconta un sogno in cui immagina di telefonare da New York a Jones, che invece è a Chicago. Più tardi nel corso del sogno ha una seconda conversazione con lui, di persona, nell’ufficio di Jones a New York. Doris aggiunge, raccontando il sogno: «devo aver viaggiato fin là nel frattempo».
Doris non ha sognato, non ha immaginato il viaggio. Tuttavia si accorge che seppur non lo ha sognato, è vero, nel suo sogno, che ha viaggiato fino a New York. Questo appunto è un caso in cui “immaginato” ed “essere fittizio” non sono lo stesso: è fittizio che Doris ha viaggiato fino a Chicago, anche se non lo ha immaginato.

Qui Walton introduce un’altra regola, la «regola di integrazione», che stabilisce che «il corpo delle proposizioni fittizie nel sogno debba essere completato in modi ovvi e naturali, salvaguardando la coerenza del tutto» [Ivi, p. 69].

Doris in sostanza avrebbe dovuto immaginare il viaggio fino a New York per rispettare le due regole. Doris può tuttavia ovviare a questa trasgressione, che non dipende fin qui da lei, ripensando la mattina al sogno e portandolo a completamento. In alternativa può, rimanendo coerente alle regole, immaginare di andare incontro ad un discontinuo sbalzo dello spazio che la trasporti a New York senza aver fatto un viaggio ordinario. In questo modo non violerebbe le regole non completando il sogno, in quanto in questo altro modo di immaginare sarebbe fittizio che non ha viaggiato in modo normale fino a New York ma che vi è stata trasferita in modo istantaneo. Diciamo che in un certo tipo di sogno l’essere teletrasportati può essere coerente, in un altro no. Doris per rispettare le regole deve fare in modo che il sogno sia coerente.

La povera Doris ha quindi davanti a sé due alternative: o completa il sogno in modo da rispettare le regole di Walton, oppure cambia modo di immaginare per far sì che nel suo sogno l’esser teletrasportati sia coerente (rimangiandosi in pratica la frase: «devo aver viaggiato fin là»). E se Doris non seguisse nessuna delle due alternative?
Walton sostiene che in questo caso Doris «può essere tacciata a ragione di non “giocare il gioco” nel modo appropriato o di tramutare la sua fantasticheria in una differente»[Ivi, p. 71].

Al di là della correttezza e dell’utilità di questa argomentazione sulle regole nei sogni, su cui comunque nutro molti dubbi, qual è il senso dell’operazione di Walton?

In primo luogo, come sottolineato, sogni, sogni ad occhi aperti e giochi di far finta vengono interpretati in una sola ottica, quella dell’esser disciplinati da prescrizioni ad immaginare e quindi rientrano nel caso della finzione.

Inoltre grazie a queste “prescrizioni” Walton può separare l’immaginazione dalla finzionalità e l’immaginato dal fittizio. Infatti c’è finzione dove c’è prescrizione ad immaginare, ma questa prescrizione ad immaginare può non essere seguita, ossia può non essere di fatto immaginata.

Questa distinzione diventerà fondamentale quando Walton analizzerà il rapporto tra lo spettatore e le opere d’arte. Tali prescrizioni permettono infatti al filosofo analitico di porre dei confini ai giochi che i fruitori possono compiere con le opere. Non ogni gioco infatti è autorizzato dall’opera.

La fruizione viene quindi caratterizzata come una attività che coinvolge spesse volte l’immaginazione che come visto può essere di molti tipi. Essa tuttavia non è un’attività completamente arbitraria. Ovviamente queste regole proposte da Walton non vanno intese in senso “forte”. Il filosofo americano è naturalmente consapevole del fatto che ciascuno può alla fine fruire delle opere come meglio crede, addirittura immaginando, in un caso limite, cose che nell’opera non vi sono affatto.
Si può quindi arrivare a capire, con una certa approssimazione, quali giochi un’opera autorizzi e quali no.

La partecipazione immaginativa ad un gioco di far finta apre quindi le porte ad una partecipazione fisica, psicologica ed emotiva molto ricca e tuttavia mai arbitraria.

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