Oltre la materia. Fruire l’invisibile

Mona Lisa - Gioconda, Leonardo da Vinci

Le proprietà ‘non manifeste’

Ho dedicato alcuni post alle definizioni di arte formulate in ambito analitico.
Buona parte delle critiche all’articolo di Weitz – l’articolo che ha scatenato il dibattito – hanno preso la strada indicata da Mandelbaum che riteneva alcune proprietà non manifeste costitutive, in vari modi, dell’essenza dell’opera stessa.

Tali proprietà, spesso identificate con le cosiddette ‘proprietà relazionali‘, sono da molti considerate centrali per l’attribuzione di artisticità ad un’opera.

Pietro Kobau chiarisce come sotto alle diverse posizioni teoriche si muovano prospettive ontologiche differenti. Ecco come Kobau sottolinea la portata ontologica della tesi di Weitz (ossia l’indefinibilità in linea di principio dell’arte):

E’ chiaro, infatti, che una simile tesi si accorda con le molte posizioni ontologiche secondo cui non è possibile applicare un unico modello ontologico (ne va, perlopiù, del modello type/token a ogni forma e genere artistico). E lo stesso vale per la sua proposta metodica di accontentarsi di individuare criteri non definitori di valutazione, giacchè questa va a toccare un principio – quello dell’avalutatività – ugualmente centrale per l’ontologia dell’arte quanto per le teorie generali dell’arte
[Kobau, Pietro, Ontologia dell’arte, in P. D’Angelo, a cura di, Introduzione all’estetica analitica, cit., p. 62]

Allo stesso modo anche la risposta di Mandelbaum sulla cui scorta si sono mosse molte delle risposte a Weitz che abbiamo sintetizzato negli articoli precedenti, ha una portata ontologica. Queste due visioni sono però radical­mente diverse; come detto, la base teorica delle risposte a Weitz è l’individuazione di proprietà non manifeste e non di «caratteristiche palesi e intrinseche possedute da tutte e soltanto le opere d’arte» [Ivi, p. 63].

E’ una scelta quindi, molto significativa e radicale, soprattutto perché questa scelta viene presa da una generazione di filosofi poco propensa a grandi voli pindarici in filosofia, e che tende invece all’anali­si di problematiche circoscritte, concrete, proponendo teorie il più possibile argomentate e verificabili.

Queste proprietà non manifeste, non percepibili esclusivamente attraverso una ispezione sensoriale delle opere, sono tipicamente rintracciate in alcune ‘proprietà relazionali’.
E’ dunque conseguente il fatto che su cosa siano queste ‘proprietà non mani­feste’ e su come vengano alla luce, nascesse un’ampia discussione.

La questione infatti interseca anche un terzo importante dibattito (oltre a quello sulle de­finizioni dell’arte e sull’ontologia delle opere d’arte) caratteristico dell’estetica analitica, quello sulle proprietà estetiche.

Queste considerazioni servono solo a sottolinea­re che se effettivamente sono delle proprietà non manifeste a caratterizzare le opere d’arte, una delle conseguenze necessarie di questo assunto coinvolgerà la fruizione. Infatti il momento della fruizione richiederà neces­sariamente la capacità di cogliere questo non manifesto, questo ‘invisibile’ che l’arte propone.

Personalmente credo che l’aver colto questo punto sia un importante passo fatto dall’estetica analitica. Si tratta poi di capire cosa sia questo non-manifesto, se esso effettivamente possa essere ricondotto a delle proprietà relazionali ed in caso, a quali proprietà relazionali.

I modi di fruire che abbiamo recuperato dai testi di Walton e di Danto, ossia partecipazione ed interpretazione, tengono conto di questo dibattito.

Walton e l’invisibile

Torno nuovamente al filosofo analitico Kendall Walton per comprendere meglio in che senso egli tenga conto delle proprietà non materiali dell’opera d’arte.

Ho provato a capire nella precisa, quasi tecnica, terminologia di Mime­si cosa egli intenda per partecipazione. Il filosofo americano tratteggia due grandi modalità di partecipazione alle opere d’arte (non solo ad esse, seguendo il tenta­tivo di Walton), una fisica ed una psicologica.

Pur essendo caratterizzata so­prattutto da una importante dimensione psicologica, la partecipazione dei fruitori «è quasi sempre in parte fisica» [K. Walton, Mimesi come far finta, cit., p. 283]:

Fittiziamente vediamo navi, leggiamo diari, ascoltiamo resoconti di testimoni oculari, e talvolta discutiamo ciò che vediamo o leggiamo o di cui sentiamo
[Ibidem]

Come dire, è quasi sempre da un primo momento fisico, una percezione, che possiamo accedere alla fondamentale dimensione psicologica che le opere ci dischiudono.

Questi due tipi di partecipazione sono sorretti da un identico quadro teorico nel quale il far finta viene interpretato nell’ottica dell’immaginazione. E’ proprio il ruolo dell’immaginazio­ne nelle opere, e nella loro fruizione (la partecipazione psicologica) che permette a Walton di porsi nel solco dell’individuazione delle proprietà non manifeste delle opere, dell’invisibile nell’opera.

Infatti, per Walton, nelle opere sono iscritte prescrizioni ad immaginare, che nella partecipazione, vengono ‘attivate’.

Nella ricerca del non percepibile reale che caratterizza l’opera, Walton ci indica l’immaginare, ed in particolare quell’immaginare che può essere guidato da delle prescrizioni.

Seppur Walton in Mimesi tiene in considerazione questa esigenza di dar conto del non percepibile, del non-manifesto, nel rapporto che si viene ad instaurare con un opera, bisogna sottolineare come il quadro che egli traccia ha una portata molto ampia tesa alla descrizione del ruolo del far finta, non solo in ambito artistico; la questione, come dire, non è la questione centrale del testo che punta ad una rivalutazione del far finta e dell’immaginazione in un ampio ventaglio di situazioni, indipendentemente dalla fruizione di opere d’arte.

Arthur Danto e l’invisibile

Il caso di Danto è diverso. Nella Trasfigurazione del banale l’identifica­zione di questo non-manifesto, presente e peculiare nelle opere d’arte al punto da differenziarle da ciò che arte non è, è il cuore della proposta teorica.

Una delle opere che Danto prende in considerazione come esemplificazione di questa necessità di andare “oltre l’occhio” per trovare le proprietà caratteristiche dell’arte, oltre a Brillo Box, è Pierre Menard, autore del «Chisciotte» di Borges.

Si tratta di un racconto scritto del 1944 in cui Borges immagina che uno scrittore francese (inventato), Pierre Menard, scriva il Don Chisciotte. Borges sottolinea come Menard non copi o ri-scriva l’opera di Cervantes, semplicemente scriva un’opera, con identico testo e titolo.

Quella di Menard e quella Cervantes, sarebbero due opere identiche?

Danto sottolinea che il Chisciotte di Cervantes e quello di Menard:

«hanno in comune solo le proprietà che può identificare l’occhio. Allora, se il compito è di individuare le opere d’arte, tanto peggio per le proprietà rilevabili dall’occhio. E l’esempio di Borges ha l’effetto filosofico di costringerci a distogliere lo sguardo dalla superficie delle cose e a chiederci in che cosa debbano consistere le differenze tra opere distinte, dato che non consistono nelle differenze di superficie»
[A. Danto, La trasfigurazione del banale, cit., p. 43].

Abbiamo sintetizzato quali siano le proprietà relazionali che Danto ritiene di aver trovato nel corso della sua riflessione. Sono tutte proprietà importanti e che sembrano effettivamente caratterizzare un’opera d’arte.

Tuttavia il tentativo di Danto è più ambizioso, vuole cioè indicare, in questo libro (successivamente indebolirà questa pretesa), proprietà in grado di definire essenzialmente l’opera d’arte. Lo studioso italiano Stefano Velotti, nell’introduzione al libro di Danto, identifica chiaramente una problematica teorica assolutamente significativa.

Quello che accade è che, dopo una lunga e articolata riflessione, sul finire del libro, Danto si rende conto di non aver trovato delle proprietà in grado di distinguere un’opera d’arte da altre rappresentazioni. Il fatto che le opere d’arte siano a-proposito-di, siano rappresentazioni intenzionali, richiedano un’interpretazione, si riferiscano ad una storia ed in particolar modo ad una storia dell’arte ed abbiano una struttura metaforica, sono proprietà impor­tanti ma non tali da riuscire a tracciare una netta distinzione tra ciò che è arte, e ciò che arte non è.

Danto reintroduce quindi delle nozioni classiche dell’estetica, il “gusto”, il “giudizio”, la “potenza dell’opera”, lo “stile”, con l’o­biettivo di marcare questa differenza. E ciò è sorprendente poiché nella sua prospettiva teorica l’estetica non viene considerata in grado di dirci alcunché sulle caratteristiche distintive di un’opera d’arte.

Il modo in cui Danto caratterizza lo “stile”, in particolare, è davvero affascinante, e tuttavia contraddittorio.
Lo stile viene infatti caratterizzato nei termini di una spiccata capacità spontanea, che l’artista ha come dono, «di permetterci di vedere il suo modo di vedere il mondo». Una via per accedere al modo di vedere il mondo dell’artista, al punto che

La grandezza dell’opera è la grandezza della rappresentazione che l’opera materializza. Se lo stile è l’uomo, la grandezza dello stile è la grandezza della persona
[A. Danto, La trasfigurazione del banale, cit., p. 253]

Leggendo queste pagine si intuisce chiaramente l’importanza che l’arte arriva ad assumere per gli uomini. Ponendo l’accento sulla spontaneità, sullo stretto legame tra lo stile dell’artista e la sua personalità, sulla capacità anche di condividere con gli altri questo modo di essere uomini, sicuramente Danto traccia una linea distintiva tra l’arte e le rappresentazioni comuni (le ‘lastre’, per fare un esempio) in modo anche profondo e poetico.

Il problema però, al di là della grande difficoltà di ricondurre a concetti chiari e precisi, viene da dire ‘analitici’, quelli presentati nel settimo capitolo della Trasfigurazione del banale, sta nel fatto che tale modo di intendere lo stile sembra contraddittorio. Se ci rivolgiamo al modo in cui Danto intende l’interpretazione ci rendiamo conto di come essa sia l’interpretazione delle intenzioni dell’artista, tanto che, e proprio nell’esempio di Bruegel in modo marcato, il titolo serve a indi­care quali esse siano.

La contraddizione qui sembra sorgere tra la spontaneità ed immediatezza che caratterizza lo stile dell’artista, mentre produce l’opera, e l’interpretazio­ne di essa una volta terminata. Se infatti l’artista lavora spontaneamente la sua opera, ciò sembra voler dire che il risultato non sia pienamente caratterizzabile come intenzionale, poiché «l’ immediatezza e la spontaneità non son sono intenzionabili»
[S. Velotti, Introduzione a A. Danto, La trasfigurazione del banale, cit., p. XIX]

Allora poi, interpretando, a quali intenzioni dovremmo rivolgerci? Se andassimo in cerca delle intenzioni dell’artista ci sfuggirebbero proprio quell’immediatezza, quella spontaneità dello stile, fondamentali nell’artisticità dell’opera.

Una intenzionalità ‘profonda’

In un passo molto bello, che citerò in un altro articolo, Mirò descrive il suo processo creativo in termini di marcata spontaneità, come una lotta eccitante ed appassionante nata da uno «choc», da un impulso fisico. Potremmo dire che Mirò intende l’intenzionalità come una intenzionalità profonda.

Anche nel caso di Mirò tuttavia, a causa dei materiali, tale spontaneità intenzionale deve sempre fare i conti con l’imprevisto, l’imprevisto è sempre in agguato, tanto che Mirò si sorprende di ciò che ha prodotto:

E l’imprevisto! Anche questo mi attrae. Pur impiegando la stessa formula, lo stesso grado di cottura, il risultato non è mai lo stesso. L’imprevisto suscita un’emozione forte, e questo mi attira. Anche l’incisione presenta aspetti imprevisti: più ce ne sono, più mi ci appassiono.
Nella mia pittura, quando una linea sottile termina in una grande forma, si verifica un imprevisto. E sono il primo a sorprendermene.
[Taillandier, Yvon, Je travaille comme un jardinier, XX° Siècle, Parigi 1959, tard it. Ghilardotti, Arianna, Lavoro come un giardiniere, Intervista di Yvon Taillander a Joan Mirò in Mirò, Poesia e luce, 24 ORE Cultura, Milano 2012, p. 41.]

L’imprevisto dei materiali corre parallelo all’imprevisto della pittura.
Tale modo di intendere l’intenzionalità, è molto diverso da quello che ha Danto che rifiuta «tutte le ‘interpretazioni profonde’» [S. Velotti, La filosofia e le arti, cit., p. 157] dell’intenzionalità.

Tale intenzionalità dell’artista sembra quindi essere contraddittoria rispetto alla spontaneità con cui viene caratterizzato lo stile.
Danto non riesce a dirimere la contraddizione tanto che Velotti sottolinea come si presenti a questo punto una particolare possibilità:

Si apre la possibilità di rivedere o addirittura di rovesciare la tesi di Danto: forse non è l’estetica a essere parassitaria rispetto a una filosofia dell’arte, ma è semmai la filosofia dell’arte a essere parassitaria rispetto a una riflessione estetica. In tal caso, anche le posizioni di Danto riguardo alla fine dell’arte e all’importanza secondaria della valutazione o del giudizio andrebbero radicalmente riviste.
Sia ben chiaro: Danto non sarebbe d’accordo su queste eventuali revisioni
[S. Velotti, Introduzione a A. Danto, La trasfigurazione del banale, cit., p. XXI]

Ciò che indica Danto come ‘invisibile’ nelle opere è comunque chiaro. Da una parte una relazione con un mondo dell’arte, caratterizzato non in senso istituzionale ma come teoria e storia, dall’altra come una fondamentale relazione con l’artista che incorpora nell’opera un significato che poi il frui­tore deve cogliere interpretando, per quanto, a causa della contraddittorietà dell’argomentazione, diventa complesso capire sia cosa l’artista effettivamente ‘incorpori’, sia come il fruitore possa riuscire a coglierlo.

Le proprietà relazionali dell’opera sono quindi fondamentalmente relazioni tra l’opera e il mondo dell’arte, tra l’opera e l’autore, e tra l’opera e il fruitore.

Questi due libri sembrano quindi darci due indicazioni importanti se voglia­mo restare nel solco di questa ontologia che per trovare l’arte nelle opere ritiene indispensabile guardare oltre il visibile, cercare oltre il percepibile con i sensi: seguire la strada dell’immaginazione, fare attenzione all’artista, al fruitore e al senso profondamente umano dell’arte.

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