L’arte e la partecipazione psicologica

Il fruitore di un’opera d’arte può, e spesse volte accade proprio questo, partecipare “psicologicamente” al gioco proposto dall’opera.

In questo, i giochi infantili e la fruizione delle opere d’arte sono molto diversi. I fruitori infatti sono soggetti a varie restrizioni; un fruitore tipicamente compie molte meno azioni rispetto ad un bambino impegnato nel gioco, la sua partecipazione è spesso poco fisica e molto psicologica.

Fondamentale è quindi, nella ricezione di un’opera, la partecipazione psicologica, che viene interpretata da Walton sfruttando a pieno la teoria che ha fin qui delineato.

Il filosofo americano non si addentrerà in modo particolarmente “profondo” nella tematica. I capitoli dedicati alla partecipazione sono comunque, a mio modo di vedere, tra i più interessanti di tutto Mimesi come far finta. In essi Walton affronta alcune domande effettivamente molto comuni nella concreta fruizione delle opere d’arte.

Gli “a parte” per il pubblico

Cosa sono gli “a parte” per il pubblico?
Con questa espressione Walton si riferisce a quando un narratore, un personaggio, una figura dipinta, si rivolge direttamente allo spettatore. Gli “a parte” sono molto frequenti nel teatro. Spesso le parole rivolte direttamente da un personaggio al pubblico non vengono, “fittiziamente”, ascoltate dagli altri personaggi sulla scena.
Si tratta di una “convenzione” artistica molto nota. Faccio comunque due esempi. Il primo è uno dei monologhi di Iago nell’Othello di Oliver Parker:

Il secondo è una raccolta di nuemrosi “a parte” di Frank Underwood (Kevin Spacey), il protagonista di House of cards:

Gli a parte certo coinvolgono i fruitori nei mondi dei loro giochi […]. Ma i fruitori appartengono comunque ai propri mondi del gioco, anche senza un tale espediente. […] Ma se apparteniamo comunque ai nostri mondi del gioco, perché dovrebbe esserci qualcosa di particolare o notevole che attiene a gli a parte? Parte della risposta sta semplicemente nel fatto che nella vita reale essere riconosciuti o che a noi ci si rivolga segna un cambiamento significativo nella nostra vita sociale.[…] Ci si sente inseriti in una maniera nella quale prima non si era.
[K. Walton, Mimesi come far-finta, cit., pp. 274-275]

Gli “a parte” sono sicuramente una delle tecniche con cui gli autori possono coinvolgere gli spettatori; possono comunque avere anche altre funzioni, ad esempio potrebbero servire per interrompere il ritmo di una rappresentazione teatrale.

Il paradosso delle emozioni fittizie

Come scrivevo, il fruitore di un’opera d’arte può entrare nel suo «mondo del gioco» diventando talvolta egli stesso un supporto riflessivo all’interno di tale gioco; il fruitore, in questo mondo, sembra spesso provare emozioni, sembra essere partecipe della sorte dei personaggi che si muovono nel mondo di finzione, sembra proprio che si rapporti a queste “entità fittizie” in un modo molto vicino a come si rapporta alle persone reali.

All’interno del settimo capitolo di Mimesi, quello dedicato alla partecipazione psicologica, Walton affronta un celebre paradosso molto trattato in ambiente analitico [Cfr. §5.3 della voce dedicata all’immaginazione nella Stanford Encyclopedia of Philosophy], il paradosso delle emozioni fittizie. Tale paradosso è solitamente elaborato partendo da tre clausole:

  • a. Si hanno genuine risposte emotive di fronte ad alcune opere di finzione (pensiamo al cinema, ad esempio).
  • b. Di fronte ad un opera di finzione si è pienamente consci del fatto che l’opera è fittizia e meramente immaginaria.
  • c. Crediamo che risposte emotivamente genuine rispetto ad una situazione, o ad un personaggio, si possano avere solo di fronte a situazioni e persone reali.

Assumendo come vere tutte e tre queste clausole si giunge ad una contraddizione.

Gli autori che hanno provato a sciogliere questo paradosso hanno, generalmente, rifiutato una delle tre clausole. Walton rifiuta la prima clausola: egli dirà che le emozioni provate di fronte alle opere di finzione sono a loro modo risposte emotive genuine, ma differenti rispetto alle loro abituali controparti “reali”.

Le emozioni frequentemente provate di fronte ad un’opera vengono infatti intese da Walton come fittizie. E’ fittizio che di fronte ad un film dell’orrore uno spettatore immerso nel suo mondo del gioco, provi paura. Walton chiama queste emozioni delle quasi-emozioni, e questa paura una quasi-paura.

Il filosofo americano non fa questa distinzione per svalutare le emozioni provate di fronte alle opere, anzi, sottolinea come le quasi-emozioni siano in fondo genuine risposte emotive; i partecipanti ai giochi provano effettivamente delle emozioni fittizie.

La distinzione serve a differenziare le emozioni provate in un gioco di far finta dalle emozioni provate di fronte al mondo reale.

La paura di fronte ad un film dell’orrore in cui un pericoloso killer sta per compiere un omicidio è infatti differente rispetto alla paura di vedere realmente un pericoloso killer che sta per compiere la stessa azione. Per questo motivo, le reazioni a riguardo sono diverse, lo spettatore continua a guardare il film, magari anche con più attenzione, coinvolto nella storia, mentre di fronte ad un reale killer agirebbe in qualche modo, ad esempio chiamando la polizia.

Lo spettatore, pur partecipando al gioco, è pienamente cosciente del fatto che l’opera sia di finzione, come vuole la seconda clausola del paradosso sopra sintetizzato.

Quello che accade in questi casi è che chi partecipa al gioco «immagina di essere spaventato, e immagina questo dal di dentro. Immaginare in tal modo, è prescritto data la natura del suo gioco e della sua esperienza effettiva» [K. Walton, Mimesi come far finta, cit., p. 291].

Questo esempio mostra bene, inoltre, come secondo Walton alcune delle «prescrizioni ad immaginare» sono relative alla modalità in cui si deve immaginare.

Il fatto di provare fittiziamente emozioni, è uno dei motivi che spiega il realismo di molti mondi di finzione e la nostra tendenza ad immaginarli come mondi separati.

La suspense

La celebre scena della doccia in Psyco di Alfred Hitchock.

La celebre scena della doccia in Psyco di Alfred Hitchock.

Alla luce di questo quadro Walton continua ad analizzare la partecipazione psicologica affrontando il tema della “sorpresa” di fronte ad opere che già conosciamo, con particolare riferimento alla “suspense”.

Nella fruizione di opere non è raro, infatti, che romanzi, o film, vengano fruiti più volte senza con ciò impedire una partecipazione psicologica vivida e coinvolgente. Rileggendo un romanzo ad esempio, per il semplice fatto che noi sappiamo come vada a finire, non siamo per questo (spesso) meno coinvolti nella trama del romanzo.

Perché?

La risposta di Walton si basa sulla distinzione tra ciò che noi sappiamo sia fittizio e ciò che è fittizio che sappiamo. Con ciò intende dire che seppure noi sappiamo, poiché abbiamo già visto un film, che è fittizio che alla fine il protagonista uscirà incolume da mille peripezie, non per questo nella nuova fruizione del film noi fittiziamente sappiamo come vada a finire.

Come dire, partecipando nuovamente alla trama del film noi accettiamo di nuovo le verità fittizie che esso mano a mano ci restituisce, e perciò potremmo essere sollevati di vedere un personaggio uscire sano e salvo da un pericolo, anche se, al di fuori della partecipazione, già sapevamo che egli si sarebbe salvato. In molti casi di fruizione ripetuta «i fruitori sanno che è fittizio qualcosa che fittiziamente non sanno» [Ivi, p. 308].

Nella musica la tendenza a ripetere un ascolto è particolarmente evidente.

Immaginiamo infatti un brano con una cadenza ingannevole sorprendente. Qualora noi riascoltassimo il brano sapremmo che è fittizio nel brano che a un certo punto si presenterà una cadenza ingannevole, tuttavia:

E’ fittizio che l’ascoltatore si aspetti la tonica indipendentemente da ciò che effettivamente si attende, ed è fittizio che sia sorpreso di sentire la sopraddominante o qualsiasi cosa invece arrivi
[Ivi, p. 307]

Può essere vero anche il contrario, ossia il caso in cui è fittizio che si sappia qualcosa che però non si è sicuri che sia fittizio.

E’ questa una indicazione che dà Walton per comprendere la “suspense”.

Ad inizio del paragrafo 7.4, dedicato alla suspense e alla sorpresa, egli cita una frase molto interessante di Hitchcock a riguardo:

Non sono mai ricorso al procedimento del whodunit [Il procedimento per cui si cela l’identità del responsabile del delitto fino all’ultimo n.d.r.], perché non è altro che un voler confondere le acque, che diluisce la suspense e la priva d’incisività. A teatro o in un film, con il pubblico che sa costantemente chi è l’assassino, è possibile accrescere la tensione a un livello quasi insostenibile…Sono convinto che bisogna dare al pubblico tutti i fatti il prima possibile
[K. Walton, Mimesi come far finta, cit., p. 304]

Nel caso di Hitchcock, seguendo l’indicazione di Walton, saremmo di fronte ad un caso in cui fruendo il film fittiziamente veniamo a sapere chi è l’assassino, tuttavia, come dire, il quadro viene a ricomporsi solo alla fine quando diviene vero nella finzione che egli è l’assassino, al di là del fatto che noi guardando il film l’avessimo già capito. La trama deve comunque esser sciolta.

Potrebbe accadere ad esempio che noi fittiziamente sappiamo chi è l’assassino, ma il protagonista del film non lo sappia. In ogni caso la suspense può durare finche la storia non scioglie tutte le sue verità fittizie, anche se noi fittiziamente sappiamo già come andrà a finire.

Il paradosso della tragedia di Hume

E’ in questo capitolo che Walton affronta anche il cosiddetto paradosso della tragedia di Hume (il riferimento è al celebre filosofo David Hume ed in particolare al suo saggio “Of tragedy”).

Tale paradosso, nella sua versione presa in considerazione da Walton, può essere sintetizzato nella domanda: “perchè andiamo ad assistere alle tragedie se nella vita reale rifuggiamo le emozioni che tali rappresentazioni suscitano?”.

Il filosofo americano per risolvere tale paradosso non utilizza gli strumenti concettuali messi a disposizione dalla sua teoria. A suo dire infatti questo paradosso non è poi così difficile da sciogliere.

Facendo l’esempio del dolore, ciò che fuggiamo non è mai il dolore stesso ma l’evento che tale dolore suscita. In alcuni casi tale dolore è anzi appropriato, e potremmo anche rimproverarci o stupirci di non provarne. Nella tragedia viene a mancare l’evento reale che genera dolore e quindi non vi sono motivi per evitare di assistere alle tragedie.

Una evoluzione nota in ambito analitico del paradosso della tragedia di Hume è il cosiddetto “paradosso dell’orrore”.

L’ornamentalità

“Partecipare” è solo uno dei modi possibili di fruire un’opera. Ciò che scrivevo su Calvino, ossia il fatto che egli considerasse «luoghi dell’altrove» più i film americani degli anni Trenta che quelli italiani del dopoguerra, dipende dalla modalità con cui venivano realizzati questi film. Vi sono molti modi nella realizzazione di un’opera per inibire o favorire la partecipazione.

Walton chiama «ornamentalità» la proprietà caratteristica di inibire la partecipazione. Fa alcuni esempi, uno che mi sembra cogliere particolarmente il segno, è quello di Notte stellata di Van Gogh.

Vincent van Gogh, Notte stellata, 1889, Museum of Modern Art, New York.

Vincent van Gogh, Notte stellata, 1889, Museum of Modern Art, New York.

Le grosse linee tratteggiate da Van Gogh infatti inibiscono parzialmente la partecipazione all’opera, ci si distrae insomma dal mondo del proprio gioco per far caso ad esse. Non la inibiscono tuttavia del tutto.

Anche nei quadri che invece più favoriscono la partecipazione, come potrebbe essere Donna che legge una lettera alla finestra aperta di Vermeer, la partecipazione comunque non è tutto, è cosa normale, ad esempio, soffermarsi proprio sull’abilità del pittore nel far sembrare reale la scena.

Jan Vermeer, Ragazza che legge una lettera alla finestra aperta, 1657 circa, Gemäldegalerie, Dresda.

Jan Vermeer, Ragazza che legge una lettera alla finestra aperta, 1657 circa, Gemäldegalerie, Dresda.

Si potrebbe dire, con Danto, che

Tradizionalmente tra artista e spettatore è valsa una sorta di complicità, per cui lo spettatore doveva non prestare attenzione alla materialità della pittura ed estasiarsi (diciamo) di fronte alla Trasfigurazione, e l’artista, da parte sua, si sforzava di facilitargli le cose rendendo la pittura massimamente invisibile.
[A.C. Danto, La trasfigurazione del banale, cit., p. 131]

Ciò non significa che la partecipazione non abbia un ruolo anche nelle opere che più la inibiscono. Anzi, è probabile che in molti casi si noti come sia difficile partecipare ad un determinato gioco, e che questo sia proprio uno degli obiettivi dell’artista.

La partecipazione fisica

Partecipare ad un’opera, in Mimesi, ha quindi un significato tecnico specifico che l’autore elabora a partire dai cardini della sua teoria. Partecipare diviene l’entrare in rapporto con una opera “giocando un gioco”; esiste un mondo del gioco del fruitore che interagisce con il mondo di finzione dell’opera; tale mondo viene interpretato alla luce delle caratteristiche dell’immaginazione, in esso valgono delle particolari regole per guidare le immaginazioni, delle prescrizioni ad immaginare, anche se poi esse possono venir tradite nei tanti possibili giochi non autorizzati.

Seppure la partecipazione psicologica un ruolo fondamentale nel rapporto tra opera e fruitore, Walton chiarisce come di fatto un certo grado di partecipazione fisica sia spesso presente.

Walton sembra voler dire che è quasi sempre l’atto del percepire che fa sì che il fruitore sia partecipe, almeno in un grado minimo: di fronte ad un quadro “vediamo” ciò che vi è dipinto, la musica la ascoltiamo…

La distanza più grande ed immediatamente evidente tra i giochi dei bambini e i fruitori di opere d’arte è nella partecipazione fisica intesa come azioni e movimenti che i bambini spesso compiono mentre gli spettatori raramente. Per questo Walton sottolinea le restrizioni (l’ornamentalità, ad esempio) a cui sono soggetti i fruitori di opere d’arte.

Un adulto rannicchiato su una poltrona con un romanzo o ritto inchiodato davanti a un dipinto non sembra proprio che stia partecipando a un gioco alla stessa stregua di bambini che giocano con le bambole o galoppano in giro per la casa a cavallo di bastoni. I fruitori sono passivi, riflessivi, e “distaccati”, può sembrare, laddove i bambini sono attivi, improntati alla fisicità, e appassionati.
[K. Walton, Mimesi come far finta, cit., p. 265.]

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