Arthur Danto e l’ironica urgenza di definire l’arte

Arthur C. Danto

Arthur C. Danto

La trasfigurazione del banale di Danto mi è servita per mostrare come il tentativo di definizione di arte sia particolarmente urgente per filosofi che interpretano la loro stessa filosofia come una filosofia dell’arte e non come una estetica.

Il celebre libro di Danto è utile anche per mettere in luce un’altra questione. L’importanza della definizione dell’arte si fa strada in particolar modo nel confronto con l’arte contemporanea, come già in parte abbiamo visto.

Il punto di partenza di Danto è Brillo Box di Warhol, il riferimento polemico sono invece le teorie dei neo-wittgensteiniani sull’indefinibilità di principio dell’arte:

Le scatole di Warhol, tuttavia, rendono problematica perfino questa presunta indefinibilità, perché assomigliano a tal punto a quelle cose che per comune accordo non sono opere d’arte da rendere urgente, ironicamente, la questione della definizione.
[Ivi, p. XXXVI]

Il fatto che per Danto siano proprio alcune particolari produzioni artistiche del Novecento a rendere urgente una definizione di arte è una considerazione che può probabilmente aver influito su altri autori, anche se in modo meno esplicito.

Bisogna anche considerare che il problema con cui si confronta Danto è un problema che già da prima delle scatole di Warhol era stato posto con forza da altre opere, i readymades di Duchamp per esempio.

Si potrebbe sintetizzare dicendo che in parte l’esigenza della definizione nasce non tanto “nella” filosofia analitica, ma da delle provocazioni “esterne”, quelle degli artisti che cominciano a chiamare arte oggetti per molti versi indistinguibili rispetto ad oggetti comuni, e comunque molti artefatti il cui status di artisticità non è scontato.

Si potrebbe pensare che le riflessioni analitiche siano un tentativo di risposta alla domanda sorta in quegli anni, «qualsiasi cosa può diventare arte?». Certo questo non è tutto, e sicuramente non spiega il perché nel continente non si sia sentita la stessa esigenza. A tale riguardo va comunque tenuto conto dell’importanza degli Stati Uniti e di New York nello sviluppo di alcune correnti dell’arte contemporanea ed anche della tendenza di molta filosofia continentale a rigettare, esplicitamente o di fatto, ogni tentativo di formulare definizioni rigorose preferendo uno stile di pensiero e di analisi più aperto e spontaneo, anche se in alcuni casi oscuro.

Il dibattito analitico può quindi, credo, servire a mettere in luce una “crisi” più o meno esplicita, più o meno forte, vissuta nel rapporto tra produzione e fruizione nell’arte contemporanea. In molti casi questa difficoltà a rapportarsi alle opere degli spettatori può essere sciolta semplicemente, senza il ricorso a nessun problema teorico, o questione filosofica. In alcuni casi infatti, in maniera abbastanza evidente, il problema di questo rapporto tra spettatori e artisti dipende o dall’incapacità di cogliere il senso di alcune opere da parte dei primi, o dall’incapacità di produrre opere dotate di senso da parte dei secondi. Non sempre però si può scaricare il problema sulla presunta ignoranza dello spettatore o sull’eccessivo manierismo concettuale dell’artista.

Su questo punto bisogna riconoscere che l’estetica analitica si è, a suo modo, messa in discussione proprio con questo dibattito, e seguire come i singoli autori abbiano argomentato questa propria “messa in discussione” può essere importante, per chi, di fronte all’arte del Novecento, un po’ messo in discussione ci si sente.

Non ci dobbiamo inoltre dimenticare che la scintilla che ha acceso il dibattito sulla definizione di arte è stata accesa da alcuni pensatori, sulla scia di Wittgenstein, che la ritenevano indefinibile. I tentativi di definizione vanno quindi intesi nuovamente come una reazione, in questo caso allo scetticismo degli autori neo-wittgensteiniani.

La dinamica dell’intero dibattito non è però lineare, anzi, è molto complessa. Provo a sottolinearne alcune direttrici.

Weitz è sì il primo ad accendere il dibattito ma il suo scritto è uno scritto polemico nei confronti dei precedenti tentativi di definizione, fatti non solo in ambito analitico. Anche per Weitz, e Danto glielo riconosce, l’inapplicabilità delle “definizioni di arte” all’arte per come effettivamente si svolge, è un problema:

«Questa definizione è stata talmente elusiva che la quasi ridicola inapplicabilità, all’arte, delle definizioni filosofiche dell’arte è stata spiegata, dai pochi che hanno percepito questa inapplicabilità come un problema, con l’indefinibilità dell’arte stessa. Così è stato, per esempio, con la dissoluzione wittgensteiniana della questione»
[Ivi, p. XXXVI]

A tale problema Weitz risponde in un certo senso “scaricando” sul concetto la problematica. Vale a dire, non sono le definizioni a non andar bene, ma è il concetto di arte a non essere definibile.

Si tratta quindi del tentativo di chiudere una storia per aprirne una nuova, grazie al contributo di Wittgenstein. A ben vedere quindi Weitz vuole chiudere i conti con una questione nata sull’altra sponda dell’oceano, il suo gesto, è quello di chi taglia i ponti con una tradizione, quella delle definizioni di arte.

Certo il tentativo di chiudere con una certa tradizione filosofica, se di questo si tratta, sembra inizialmente non riuscire bene perché come detto, gli altri filosofi analitici non lo apprezzano, reagiscono in modo veemente e pongono proprio la questione, che Weitz voleva chiudere, al centro del dibattito. Nel farlo però non ricuciono un rapporto con gli obiettivi polemici di Weitz, ma cercano nuove strade autonome.

Quello che accade infatti, è che essi creano una nuova tradizione di definizioni dell’arte, e gli interventi, ospitati spesso nelle riviste, fanno riferimento quasi sempre ad altri filosofi analitici e sempre meno agli obiettivi polemici di Weitz.

Considerando l’estetica analitica come un movimento “compatto”, cosa vera solo in parte, visto l’alto tasso di litigiosità interna, il tentativo sembra essere quello di ricollocare una questione tradizionale, il ruolo dell’arte nella riflessione filosofica, su basi nuove. Questo è vero sia per Weitz che per chi allo scetticismo neo-wittgensteiniano risponde.

La tradizione continentale comunque non viene sostituita e dimenticata completamente; la figura di Danto in questo senso è importante perché, data anche la sua biografia, la sua filosofia può essere intesa come una riuscita sintesi di tematiche analitiche e continentali.

Ecco, guardando dall’esterno a questa dinamica di “provocazione” da parte di Weitz e “reazione” di molti altri filosofi analitici, e alla questione della “filosofia dell’arte”, il dibattito sulla definizione di arte sembra assumere il ruolo di questione simbolo di una importante riflessione filosofica dell’estetica analitica sul suo stesso ruolo.

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