Inventar parole: il caso della “visica”

Ho scritto ormai un discreto numero di articoli su un dibattito filosofico, lungo e tortuoso, che ha impegnato molti dei più importanti filosofi dell’arte analitici: quello sulla definizione di arte.

Studiando questo dibattito mi ha molto colpito una tendenza particolare di questi filosofi, una certa spregiudicatezza nell’uso delle parole che li spinge talvolta a reinterpretare radicalmente il significato di alcuni termini, talvolta li porta addirittura ad inventare parole o locuzioni.

Abbiamo detto che non bisogna stupirsi che l’esigenza di definire in ambito analitico si sia rivolta verso il concetto di arte. Tuttavia credo che questa esigenza di definizione vada ricompresa all’interno di una più generale tendenza a voler fornire una argomentazione chiara e trasparente, aperta alle confutazioni e sempre argomentata razionalmente.

Questa “generale tendenza”, porta i filosofi analitici all’utilizzo di alcune metodologie ricorrenti. Ad esempio il frequentissimo utilizzo di controesempi immaginari, sia volti alla confutazione di idee e teorie “antagoniste”, che come sostegno o prova di validità delle proprie; anche il diffuso concentrarsi su tematiche specifiche e delimitate può essere visto in quest’ottica.

Non è questa tendenza una specificità dell’estetica analitica ma della filosofia analitica più in generale, e che viene in realtà ancora da più lontano. Anzi si può dire che in parte l’estetica analitica se ne discosti. Sottolinea D’Angelo come «paradossalmente» ad apparire oggi «decisamente minoritaria» è proprio «una metodologia letteralmente analitica, sia se si intende “analisi come riduzione di un concetto alle sue componente logiche” che, più in generale, “come chiarimento di concetti vaghi e confusi”» [Cfr. P. D’Angelo, La definizione dell’arte, in Introduzione all’estetica analitica, cit.].

Non mi concentro su questa complessa genesi che vorrebbe dire alla fine ripercorrere la storia dell’analisi ma su dei casi significativi per reinserire la questione della definizione di arte in un contesto più generale che comunque segna l’estetica analitica.

Sembra infatti chiaro che anche il voler trovare definizioni, tra cui quella di arte, è un procedimento che assume il suo senso nell’ottica del tentativo generale di costruzione di argomentazioni chiare, e perciò aperte alla confutazione, e, più specificatamente nel tentativo di chiarificazione dei termini che vengono utilizzati nell’argomentazione.

Con alcuni termini il compito di chiarificazione è particolarmente arduo. Parole come “arte”, “rappresentazione”, “immaginazione”, solo per fare un esempio, sono parole che portano con sè una propria lunga storia che ha fatto sì che attorno ad esse si condensassero significati ed usi molto complessi da districare. In questo senso li considero dei “concetti complessi” con cui comunque ad un certo punto della riflessione estetica (talvolta all’inizio) ci si trova a confrontarsi. Questa è parte della loro ricchezza, ma questo è anche, credo, uno dei motivi per cui è così difficile cogliere e tenere insieme tutte le sfumature di significato.

La tendenza dunque che vorrei mettere in luce è questa: di fronte a parole e concetti che per vari motivi potremmo chiamare “complessi” se non addirittura confusi, come arte, immaginazione, rappresentazione, spesse volte una delle strategie teoriche messe in atto da alcuni filosofi analitici è quella di comprendere il concetto in questione avvalendosi di un concetto più chiaro, semplice e trasparente. Tuttavia, nel provare a spiegare un termine complesso con l’ausilio di uno più semplice, si trovano spesso nella condizione di non avere a disposizione nemmeno il secondo termine. Per evitare questa difficoltà gli autori ricorrono spesso a delle parole o locuzioni che assumono un significato peculiare all’interno della loro teoria, solo in parte coincidente con il significato comune.

Di questi concetti l’estetica analitica è piena, basti pensare al vedere in, alla densità sintattica e all’aboutness. Tutte parole che nell’essere introdotte assumono un significato specifico, tecnico, all’interno della teoria dell’autore in questione, non riducibile al significato comune.

Questo procedimento ricorre spesse volte all’interno dei dibattiti sul concetto di arte e caratterizza spesso le strategie argomentative più generali dei vari autori.

In alcuni casi, il concetto semplice, d’ausilio alla chiarificazione del concetto complesso, viene proprio inventato. Faccio un esempio a proposito. Il tentativo di definizione di arte fatto da Monroe C. Beardsley, in Le definizioni delle arti. In questo testo Beardsley introduce due concetti (“oggetto estetico” e “visica”) per giungere attraverso di essi alla definizione desiderata, quella di “opera d’arte”.

L’introduzione del neologismo “oggetto estetico” serve in modo esplicito a sostituire il concetto di “opera d’arte”, un concetto che a Beardsley non sembra sufficientemente chiaro in quanto «deve sopportare delle stranezze che lo rendono insoddisfacente per certi scopi filosofici» [M. C. Beardsley, Le definizioni delle arti, cit., p. 34]. Questa sostituzione non è priva di una indicazione, ossia quella di rifiutare di considerare le opere d’arte all’infuori di una esperienza estetica. Oggetto estetico è quindi un neologismo che sostituisce opera d’arte ma non in maniera completamente neutrale.

Una volta effettuata la sostituzione, comunque significativa (altrimenti perché farla?), Beardsley è solo all’inizio della sua argomentazione che verterà proprio sul trovare delle proprietà comuni a tutti gli “oggetti estetici”. Come detto nell’articolo “linkato” poco sopra, queste condizioni necessarie affinché ci si trovi di fronte ad un oggetto estetico vengono trovate nella “coerenza” e nella “completezza”. Per chiarire il significato della “coerenza” e della “completezza” Beardsley si avvale di un altra parola da lui inventata: la “visica”.

Coerenza e completezza sono introdotte in relazione alla musica e poi estese ad altre arti. Affinchè vi sia “musica”, sostiene Beardsley, occorre che vi sia un «movimento musicale» [Ivi, p. 40] difficile da descrivere, ma facilmente udibile. Con tale espressione egli si riferisce in primo luogo alla melodia intesa come «una sequenza di note che si uniscono in un percorso, con una tendenza e una direzione, sufficientemente interdipendenti da creare una singola entità in movimento attraverso lo spazio e il tempo uditivo» [Ibidem]. Estende però questa idea di «movimento musicale» a «tutti i passaggi sonori ritmicamente organizzati» [Ibidem]. Proprio questo movimento «è la coerenza di base che costituisce il fattore distintivo della musica» [Ivi, p. 41]. Tuttavia una «musica» non è ancora una «composizione musicale»; affinché vi sia quest’ultima occorre che la musica in questione possegga anche «un grado percepibile di completezza» [Ibidem], ossia che essa abbia una sua autosufficienza e sia «capace di generare il suo proprio impeto e di giungere alla sua propria conclusione» [Ibidem].

Estendendo questi due concetti alle arti plastiche Beardsley si accorge che se “design visuale” può essere un concetto per molti versi parallelo a quello di “composizione musicale”, noi non possediamo per parlare di arti plastiche un termine analogo a “musica”. Beardsley conia a questo proposito il termine “visica”, analogo a quello di “musica” e come esso caratterizzato da un certo grado di coerenza, una coerenza visuale in questo caso. A questo punto egli può ripetere le considerazioni fatte a proposito della musica, abbastanza specularmente, per le arti plastiche. Ecco l’esempio fatto da Beardsley:

Prendiamo, come esempio, una veduta a caso di foglie ed erba osservata da una finestra. Una scena del genere avrà un certo grado di coerenza, cioè starà insieme, in virtù di similarità strutturali formali e cromatiche. Questa porzione di visica […] può essere distinta (anche se non precisamente) da una porzione di campo visivo che non abbia alcuna coerenza […] Ma nei fatti trovare esempi di completa incoerenza nel campo visivo non è così facile.
[Ibidem]

Questo esempio mostra in modo chiaro la funzione strumentale di questi due nuovi termini regalati da Beardsley ai posteri. Ho scelto questo esempio proprio perché qui si tratta di un neologismo e di una parola inventata, in un certo senso si tratta di un caso in cui un atteggiamento teorico è spinto alle estreme conseguenze. Il caso di “visica” a riguardo è significativo, Beardsley si accorge che manca una parola per far tornare i conti con la sua teoria e semplicemente la introduce, l’argomentazione ed il parallelo tra musica e arti plastiche diviene sicuramente più chiaro e coerente.

Il fatto di reinterpretare alcune parole, è cosa comunissima praticamente in ogni ambito della cultura. Le parole vengono spesso rinnovate, si caricano di nuovi significati, vengono trovati accostamenti originali che talvolta aiutano considerevolmente a comprendere il senso più profondo di una teoria. E’ cosa spesso bella, creativa, talvolta davvero importante.

In filosofia poi tale procedimento è davvero frequente, l’uso del linguaggio in molti autori, anche in molti di quelli considerati “classici”, è veramente particolare. Insomma, noi studenti di filosofia, ne abbiamo viste e sentite davvero di ogni sorta.

Ogni nuova reinterpretazione, creazione o accostamento di parole, dovrebbe però avere un motivo, un significato. A maggior ragione l’invenzione di una nuova parola. Non credo che sia il caso che le aule di filosofia diventino fucina inesauribile di nuovi termini o di parole intese sempre in senso diverso rispetto al linguaggio ordinario. Bisogna quindi capire, in ogni singolo caso, se queste “nuove parole” hanno senso, che senso hanno e se una nuova parola o locuzione merita di essere usata, oppure no.

Nell’estetica analitica tale tendenza è particolarmente spiccata e dipende, a mio modo di vedere, da una eccessiva ansia nel voler chiarire il significato delle parole. Una sorta di “ipertrofia dell’analisi razionale”, se mi passate l’espressione.

Nel prossimo articolo, farò un altro esempio a riguardo, il concetto di rappresentazione in Kendall Walton.

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