Il fallimento dell’estetica analitica nel definire l’arte

Dopo aver ricostruito per sommi capi il dibattito analitico sulla definizione di arte, ho pubblicato alcuni articoli “di approfondimento” per provare a capire perchè l’estetica analitica ha provato a definire l’arte con tale insistenza.

Uno dei motivi, scrivevo, riguarda probabilmente il fatto che tali filosofi, quasi sempre, si pensino più come filosofi dell’arte che come filosofi di estetica; oltre a ciò bisogna tenere conto di come tali filosofi considerino spesse volte la definizione di arte una risposta soddisfacente alla domanda “che cosa è arte?”, pretesa secondo me discutibile che sembra dipendere da presupposti concettuali, da una certa impostazione molto razionale di guardare le cose, tipicamente analitica.

Infine, ho sottolineato come tale dibattito nasca in un determinato contesto artistico che probabilmente (sicuramente almeno nel caso di Danto) ha stimolato la nascita di questa querelle filosofica.

Ciò non toglie che provare a chiarire questo tentativo, anche restituendogli il suo “spessore” filosofico, significa per molti versi capire le ragioni di un fallimento.

fallimento

Come dicevo all’inizio infatti, l’estetica analitica, alla fine dei conti, non è riuscita a trovare una definizione di arte in qualche modo condivisa. E’ possibile inoltre, ed è stato fatto, mettere in discussione la reale efficacia di ognuna di queste definizioni.

Il fallimento dei tentativi di definire l’arte è quindi, alla luce delle considerazioni precedenti, anche il segnale della difficoltà dell’estetica analitica di comprendere il ruolo dell’arte attraverso delle teorie e degli “strumenti filosofici”, probabilmente sopravvalutati all’inizio del dibattito.

Aveva, almeno nella sostanza se non negli argomenti, ragione Weitz quando scriveva che l’arte non è definibile?

Tra l’altro uno degli indizi indicati da Weitz per comprendere l’impossibilità della definizione di arte era proprio la considerazione che tutti i tentativi fatti in precedenza erano andati a vuoto. Visti in quest’ottica gli ulteriori tentativi fatti in ambito analitico potrebbero essere una ulteriore involontaria conferma.

Bisogna anche dire però che le considerazioni fatte da Weitz per giustificare la sua posizione hanno subito una critica radicale, come visto, e difficilmente basandoci sul suo saggio si potrebbe confermare una indefinibilità logica, di principio, del concetto di arte.

Confrontarsi con una definizione di arte non confutabile e condivisa quantomeno dall'”ambiente filosofico” cui si appartiene è compito molto complesso, esso però diventa titanico (impossibile?) se la stessa “idea di definizione” che sta alla base dei tentativi non è salda. Una cosa che davvero colpisce molto in tutti questi tentativi è che queste definizioni non sono differenti solo nel contenuto, ma anche nella modalità di definizione. Abbiamo sottolineato alcune “etichette” che sono state date a questi tentativi: definizioni procedurali, istituzionali, funzionali, classificatorie ecc. Queste “etichette” nascondono delle posizioni teoriche molto diverse, spesso opposte. Prendendo come esempio una questione che abbiamo già toccato parlando de La trasfigurazione del banale di Danto, ossia se l’estetica ha o no, genericamente, un qualche ruolo all’interno della riflessione sull’arte, è chiaro che qui ci troviamo di fronte ad una scelta teorica per molti versi basilare.

Se Danto e Dickie sostengono di no, e Beardsley invece l’opposto, è banale la considerazione che la definizione proposta, dall’una o dall’altra parte, non possa essere condivisa partendo da presupposti teorici così diversi. Il fatto che la definizione proposta includa la nozione di estetica, o viceversa non lo faccia, può a priori essere considerato un punto di scontro ed anche, soprattutto se argomentato, di confutazione.

Pietro Kobau nella sua ricognizione sull’ontologia dell’arte nella estetica analitica sottolinea come alla base dei tentativi di definire l’arte vi sia sempre una visione ontologica, non sempre comune, da parte degli autori. In particolare l’ipotesi di Weitz «si accorda con le molte posizioni ontologiche secondo cui non è possibile applicare un unico modello ontologico (ne va, perlopiù, del modello type/token) a ogni forma di genere artistico». La critica fattagli da Mandelbaum e che poi segnerà molti degli interventi successivi sul tema, poggia invece su « una tesi ontologica genuina – di segno e soprattutto di tono diverso – […] secondo cui i tratti comuni da ricercare in quanto utili a una definizione dell’arte potrebbero non essere caratteristiche palesi e intrinseche possedute da tutte e soltanto le opere d’arte, bensì proprietà non manifeste e di tipo relazionale» [Kobau, Pietro, Ontologia dell’arte, in P. D’Angelo, a cura di, Introduzione all’estetica analitica, cit., pp. 62-63].

Insomma, penso che sia molto difficile trovare una definizione che sia esente da contraddizioni e che resista a tentativi di confutazione senza partire da dei presupposti teorici molto chiari e condivisi, almeno tra i partecipanti alla ricerca in questione. In tal senso questo dibattito è servito a far emergere con chiarezza delle prospettive filosofiche decisamente differenti e spesso inconciliabili.

Forse l’impossibilità logica di definizione di arte è una pretesa non legittima o comunque che non è stata legittimata a sufficienza; la si può indebolire dicendo che nel dibattito analitico non vi era la possibilità di definire arte a causa di presupposti teorici molto distanti tra loro. Discorso certo un po’ comodo a posteriori.

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