Il ruolo della critica nell’arte

Se un po’ tutti siamo chiamati all’interpretazione, è anche vero che la “chiamata” è forte in primo luogo per il critico di professione, che nei confronti dell’arte contemporanea in special modo, svolge un ruolo davvero delicato. In questo senso fruizione come interpretazione e “critica”, sono sicuramente legate.

Denis Riout, a riguardo, cita una ironica frase di Tom Wolfe del 1975, molto centrata su questo delicato ruolo:

Foto di sognirossi.

Foto di sognirossi.

Mi sento di profetizzare che nell’anno 2000, quando il Metropolitan Museum o il Museum of Modern Art daranno vita alla grande mostra retrospettiva dell’Arte americana dal 1945 al 1975, i tre artisti più rappresentativi, le tre figure fondamentali dell’epoca non saranno Pollock, De Kooning e Johns, ma Greenberg, Rosenberg e Steinberg. Ci saranno sui muri immensi ingrandimenti, di 2,60 x 3,25 m, ciascuno dei quali riprodurrà le frasi proteiformi del periodo…un po’ di «fuligginosa pittura a spatola» qui…un po’ di «pittura-azione» là…e un po’ di questa «grandissima arte ispirata all’arte» un po’ più in là. Accanto a esse, ci saranno minuscole riproduzioni di opere importanti che illustreranno le Parole dell’epoca, di Johns, Louis, Noland, Stella e Olitski. (Pollock e De Kooning godranno di un trattamento un po’ più adeguato, anche se in nessun modo superiore, a causa dei rapporti più simbiotici che avranno avuto la fortuna di intrattenere con i grandi Artisti della Parola).
[T.Wolfe, Le mot peint, 1975, Gallimard, Paris, 1978, pp. 122-123, in D. Riout, L’arte del ventesimo secolo, cit., p. 282]

Al di là della velenosa ironia, il ruolo della critica è divenuto evidente, e proprio nell’arte contemporanea, sembra aver accresciuto la sua importanza al punto che per Danto l’interpretazione entra nella costituzione delle opere stesse.

Secondo Kendall Walton, fruizione e critica, pur essendo distinte, non sono attività poi così distanti, anch’esse infatti hanno un legame. Il far finta ha un ruolo in moltissime attività, secondo Walton, ma la partecipazione può avere una funzione anche in ambiti diversi rispetto ai casi più tipici di fruizione.

Nel caso della critica, l’interesse viene rivolto espressamente verso la funzione delle opere rappresentazionali e dei supporti in genere, e verso che genere di verità fittizie essi generino e quali giochi siamo autorizzati a giocare con essi.

Questo modo di considerare i supporti, senza cioè partecipare al gioco di far finta proposto dai supporti, in modo da poterne analizzare la funzione, è «anche l’interesse di chi voglia trarre da un’opera inferenze sull’artista, sulla sua personalità, lo stile, il talento, o l’originalità» [K. Walton, Mimesi come far finta, cit., p. 77].

Si potrebbe quindi pensare che da un lato vi siano la fruizione e la partecipazione, attività che coinvolgono l’immaginazione, dall’altro la critica, lo spettatore distaccato che analizza. Per Walton però, non è così. Questi due poli non sono separati da una linea netta, e anzi, si implicano reciprocamente:

un’idea sarebbe distinguere la fruizione dalla critica, e trattare in separata sede le osservazioni che le persone fanno mentre sono impegnate in queste diverse attività. Il fruitore è preso dallo spirito dell’opera e gioca con essa, prendendo parte a un gioco in cui l’opera è un supporto. […] Il critico, per converso, considera l’opera e i giochi da praticare con essa dal di fuori, dal punto di vista di un astante, descrivendo in modo fattuale quali verità fittizie generi.
La situazione non è così semplice, naturalmente, anche se assumiamo che la fruizione sia principalmente questione di fingere e la critica principalmente di osservare e di descrivere. Fruizione e critica, partecipazione e osservazione, non sono così tanto distanti. Non è che si possa fare una delle due cose senza fare l’altra, e quasi allo stesso tempo.
[Ivi, pp. 445-446]

Fruire, nel senso di partecipare (abbiamo visto come possa esistere per Walton una fruizione senza partecipazione), richiede in un certo grado la critica, infatti il fruitore deve accorgersi di cosa sia fittizio all’interno del mondo dell’opera. Allo stesso modo è molto difficile che il critico riesca ad avvicinarsi ad un’opera senza in qualche modo partecipare al gioco proposto da essa (e ancor di più senza aver mai partecipato al gioco proposto da essa).

La partecipazione verbale ad un gioco di far finta è particolarmente evidente in molti casi, anche in situazioni di critica rigorosa. In sede di analisi critica ci si riferisce verbalmente di continuo al mondo dell’opera. Sono molti i possibili esempi, uno di quelli fatti da Walton riguarda una descrizione delle “anacronie” letterarie fatta da Gérard Genette che riferendosi ad un romanzo di Santeuil, scrive: «Jean, dopo vari anni, ritrova il palazzo dove abita Marie Kossichef, da lui amata in passato, e confronta le sue impressioni attuali con quelle che, un tempo, pensava di dover provare in quella occasione» [Ivi, p. 445].

In questo esempio è chiaro che, pur non uscendo dal discorso critico, Genette si riferisca agli eventi come accade nei casi di partecipazione. In alcuni casi è chiaro che il far finta, e anche la partecipazione, debba avere un ruolo. Walton tratteggia quindi tra fruizione partecipativa e critica una linea non invalicabile, sfumata.

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E’ un caso limite, ma non è impossibile immaginare che in alcuni casi il fruitore sia più importante, per così dire, di chi l’opera la realizza. Sembra, come ironizza Danto, un po’ una consolazione per i non artisti.
In ogni caso è effettivamente molto difficile immaginare l’opera d’arte senza nessuno che la recepisca. E’ forse possibile, astrattamente possibile, anche se di fatto non si dà mai, o è rarissima, l’arte senza fruizione.

Anche perché bisogna considerare che chi realizza un opera, difficilmente può fare a meno anche di fruirla, seppur da una prospettiva singolare ed unica.

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