Immaginare sociale e solitario

Bambini alla fontana,  Scuola francese, Fine XVIII secolo. Fonte

Bambini alla fontana, Scuola francese, Fine XVIII secolo. Fonte


Ho dedicato alcuni articoli alle distinzioni fatte dal filosofo americano Kendall Walton riguardo all’immaginazione. Abbiamo parlato della differenza tra immaginazione occorrente e non-occorente, di quella tra immaginare proposizionale e non-proposizionale e di quella tra immaginare spontaneo e deliberato.

Un’altra distinzione introdotta da Walton, molto importante per la sua teoria, è quella tra «immaginazioni sociali» e «immaginazioni solitarie».

Se risulta immediatamente chiaro cosa intenda il filosofo americano per “immaginazioni solitarie”, la nozione di immaginazione sociale è probabilmente più particolare. Accade talvolta che tra più persone ci si accordi su cosa immaginare, è proprio questo tipo particolare di immaginare che Walton chiama “sociale”. In questo caso si perde in parte la spontaneità delle immaginazioni, e quindi in parte anche la vivacità di questo modo di immaginare. La coordinazione tra le immaginazioni di più persone può non essere ottenuta tramite un accordo, ma anche tramite degli strumenti appositi, i supporti.

Probabilmente parlando dell’immaginare sociale Walton pensa ancora una volta soprattutto ai giochi dei bambini.
Facciamo un esempio di “immaginare sociale” tratto da “Momo”, uno splendido libro di Michael Ende.

Momo è una bambina rifugiatasi tra le rovine di un antico anfiteatro di una immaginaria città senza nome, forse italiana. Nei primi capitoli del libro lo scrittore racconta di come rapportandosi a questa bambina molti degli abitanti cambino, in meglio, il loro modo di essere.
Nel secondo capitolo del libro i bambini iniziano a giocare ed Ende descrive proprio le fasi di accordo sul gioco e di decisione dei “supporti” (la rotonda come nave etc.):

Va da sé che quando Momo ascoltava non faceva alcuna differenza tra grandi e piccini, ma c’era un altro motivo che attirava i bambini al vecchio anfiteatro. Da quando c’era Momo trovavano più gusto ai giochi; non c’era un istante di noia, ecco. E mica che Momo proponesse cose speciali! No, Momo era lì e giocava con loro. E proprio per questo – non si sa come – ai ragazzi venivano le più belle fantasie. Ogni giorno inventavano nuovi giochi, uno più appassionante dell’altro.

Una volta, in un giorno afoso e soffocante, una decina di bambini se ne stavano seduti sulla gradinata in attesa di Momo che era andata a girellare nei dintorni, com’era solita fare ogni tanto. Dal cielo incombevano gonfie nuvole nere; probabilmente, e presto, sarebbe scoppiato un temporale.
«Io vado a casa», disse una ragazzina che aveva con sé il fratellino, «ho paura dei lampi e dei tuoni».
«E a casa non hai paura, forse?» domandò un ragazzo con gli occhiali.
«Sì che ce l’ho», rispose la ragazzina.
«Allora tanto vale che resti qui», stabilì il ragazzo.
La ragazzina fece una spallucciata e annuì. Poi disse: «Ma forse Momo non viene».
«Che importa», intervenne un ragazzo dall’aspetto trasandato, «possiamo giocare anche senza Momo».
«D’accordo, ma a che cosa?»
«Non so. Qualunque cosa».
«Qualunque cosa è niente. Chi ha un’idea?»
«Io so cosa» disse un ragazzotto grasso con la vocetta da bambina.
«Possiamo far finta che tutta la rotonda sia una grande nave e noi navighiamo per mari sconosciuti e ci capitano delle avventure. Io sono il capitano, tu sei il nocchiero, tu un professore, un naturalista perché è un viaggio di ricerche, capisci? E gli altri sono marinai».
«e noi ragazze, cosa siamo?»
«Marinaie. È una nave del futuro».
Bell’idea, proprio ben progettata! Cominciarono a giocare, ma non riuscivano a mettersi d’accordo e il gioco non si animava, non scattava la molla di partenza. Poco dopo erano di nuovo seduti sui gradini ad aspettare.
E poi giunse Momo.
Ecco.

Alto era il solco di prua la nave esploratrice Argo beccheggiava sul mare quieto e basso mentre…”
[Michael Ende, Momo, Longanesi, pp. 24-25]

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